sei in Home > Archeologia > News > Dettaglio News
1 Gennaio 2009 ARCHEOLOGIA
CataniaCultura.com
L'ENIGMA ANASAZI ED I REMOTI CONTATTI TRA ASIA E AMERICA
tempo di lettura previsto 13 min. circa

Segnaliamo questo interessante articolo di Ignazio Burgio apparso su cataniacultura.

La "Piramide a nicchie" di Tajin presenta l'inconfondibile stile delle altre piramidi asiatiche: anche se non molto alta - appena una ventina di metri - tuttavia risulta finemente lavorata con la riproduzione di 365 nicchie, dall'evidente significato astronomico, insieme ad una scalinata sul suo lato rivolto verso est. A detta di studiosi come Pierre Honorè, essa "...non solo nella parte inferiore della costruzione, ma anche nelle decorazioni e nelle nicchie è identica alle pagode della città morta birmana di Pagan...". La cosa più curiosa tuttavia è il fatto che questa piramide, insieme alle rovine della città che la circonda, non si trova nè in Indocina nè in nessun altro luogo dell'Asia, bensì nell'attuale Messico vicino la città di Poza Rica. Riportata alla luce dalle spedizioni archeologiche guidate da Jose Garcia Payon, tra il 1935 ed il 1963, Tajin ("tuono") fu la prima capitale dei Totonachi, un fiero popolo mesoamericano che dopo essere sopravvissuto per 1500 anni si arrese solo ai Conquistadores spagnoli di Cortez. Oltre alla già citata piramide, numerosi altri reperti rinvenuti all'interno della città richiamano gli stili artistici asiatici: "...Lo stile ornamentale di Tajin, specie per quanto concerne i vasi, mostra una tale somiglianza con il tardo stile Chu della Cina, da rendere quasi impossibile distinguere l'uno dall'altro..." affermò sempre Pierre Honorè.

Fra tutto quanto si è salvato dalla distruzione dei Conquistadores spagnoli in America Latina, molti sono i reperti di ogni tipo che si ricollegano all'arte delle civiltà asiatiche, come le piramidi ed i monumenti della città maya di Chichen Itzà, quelle di Tikal, identiche a quelle cambogiane di Angkor-Vat, ma anche statue, gioielli (di giada, come quelli orientali), ornamenti e decorazioni rinvenuti in Ecuador ed in Perù. Per non parlare di curiose analogie scientifiche e culturali, come l'uso dello zero e del sistema decimale presso i Maya che fino all'inizio del Medioevo si ritrovava solo in un altro luogo al mondo, in India.

Il sospetto che in epoca remota possano esservi stati contatti - forse stretti e regolari - fra le due opposte sponde dell'Oceano Pacifico ha attraversato la mente di più di uno studioso, anche accademico. Nel 1961 su di un quotidiano di Pechino apparve un articolo firmato dallo storico cinese Chen Hua-Hsin il quale rivendicava ai navigatori del celeste Impero la scoperta dell'America almeno mille anni prima di Colombo. Pur non sminuendo i meriti del grande genovese, il docente d'oltre muraglia basava le sue affermazioni oltre che sulle somiglianze artistiche che abbiamo già citato anche sulla cronaca di viaggio di un antico cinese in un "paese buddista posto al di là del mare" che Chen Hua-Hsin identificava con il Messico. Più di un critico fece notare che il non meglio identificato "paese buddista" con molta più verosimiglianza poteva essere rappresentato dall'India. In ogni caso comunque non può essere negato che le robuste navi cinesi già in epoca pre-cristiana erano in grado di affrontare tranquillamente anche l'Oceano Indiano, e dunque avrebbero anche potuto avere la possibilità di attraversare il Pacifico.

Alcuni studiosi - quali il già citato Honorè, Kolosimo, ecc. - tuttavia si sono spinti addirittura ben oltre l'ipotesi - tutt'altro che inverosimile - di contatti, occasionali o regolari, tra Asia e America in epoca storica. Le forti analogie artistiche, culturali e scientifiche tra le due sponde opposte del Pacifico non deriverebbero, secondo tali autori da viaggi transoceanici in età storica, bensì sarebbero la comune eredità ricevuta da una remota civiltà localizzata da qualche parte del grande oceano. Nonostante possa generare scetticismo - soprattutto perchè collegata alla leggendaria isola di Mu - anche questa ipotesi non dovrebbe essere scartata "a priori", in forza dei tanti indizi relativi ad una remota antichità di rovine, tradizioni culturali, sofisticate conoscenze, e non ultimo anche di etnie che sembrerebbero quasi "fuori posto".

In tantissimi miti del mondo pre-colombiano si parla di divinità e sovrani di pelle bianca, dotati anche di una folta barba. Numerose statue e bassorilievi raffiguranti questi personaggi dai nomi mitici - Quetzacoatl, Virakocha, Kon-Tiki - sono stati rinvenuti tra il Messico ed il Perù. Indios di pelle chiara addirittura - secondo alcune testimonianze - sarebbero stati avvistati nel secolo scorso nel folto della foresta amazzonica. Sembrerebbero elementi assurdi e contraddittori data la preponderanza pressochè totale da parecchi millenni del genotipo e fenotipo mongolo, tanto in Estremo Oriente quanto in America, prima dell'arrivo degli Europei. Non bisogna dimenticare tuttavia che da tempo immemorabile in un angolo dell'Asia è sempre esistito un gruppo umano di pelle bianca e dotato di folta barba, ovvero gli Ainu nel Giappone settentrionale. Ridotti negli ultimi secoli ad occupare solo la gelida e poco ospitale isola di Hokkaido (ed in minor misura anche le vicine Curili, Sachalin e Kamchatka), fino al medioevo si trovavano anche nell'isola più grande dell'arcipelago nipponico - Honshu - dalla quale vennero cacciati a forza dai samurai in una vera e propria operazione di "pulizia etnica". Oggi ridotti di numero ed anche culturalmente in decadenza, conservano le tradizioni di un passato che deve aver dato loro "giorni migliori": è notizia recente ad esempio la scoperta che numerosi gruppi etnici, in Ecuador ed in Perù, sono risultati geneticamente imparentati proprio con gli Ainu, cosa che potrebbe confermare quindi anche le testimonianze lasciateci dai primi spagnoli circa la presenza di indios dalla pelle chiara negli ex domini Inca. Fra le usanze conservate e ancora osservate dagli Ainu giapponesi vi è quella della costruzione di ambienti circolari seminterrati nel suolo con finalità religiosa e cerimoniale in memoria dei propri remoti antenati. Questi ambienti circolari vengono nella loro lingua chiamati "ki-va".

Lo stesso identico nome veniva assegnato a costruzioni assai simili da un misterioso popolo di pellerossa americani, agricoltore e sedentario, esistito negli attuali Stati Uniti meridionali tra l'inizio dell'era cristiana ed il XIV secolo per poi scomparire probabilmente a causa di un grave disastro climatico: gli Anasazi. Già in un precedente articolo si sono evidenziate le profonde conoscenze archeoastronomiche di queste genti che all'interno del Chaco Canyon (New Mexico) riempirono i loro villaggi (poi denominati "Casas") di perfetti orientamenti con i solstizi, gli equinozi, le fasi della luna, e via dicendo. Gli astri, le stagioni e l'armonia architettonica con il calendario sembravano non avere segreti per loro che a Pueblo Bonito - la loro capitale-santuario - Penasco Blanco, Fajada Butte ed altre località hanno lasciato pitture, graffiti, ed allineamenti architettonici dove i raggi del sole e della luna formano ancora oggi giochi di luce dal preciso significato astronomico in occasione dei solstizi, degli equinozi e delle varie fasi lunari. Gli archeologi americani inoltre non sanno ancora oggi spiegarsi, se non con ipotesi ancora vaghe, come abbiano potuto costruire strade di centinaia di chilometri così perfettamente allineate lungo l'asse nord-sud che attualmente potrebbero essere realizzate soltanto con l'ausilio del GPS satellitare! La stessa bussola - che naturalmente non potevano conoscere - indurrebbe infatti in errore a causa dello scarto tra nord geografico e nord magnetico. Fino alla fine del XIII secolo (quando contemporaneamente Dante e Marco Polo conducevano le loro faticose peregrinazioni) la loro civiltà fu più o meno florida, effettuavano periodiche processioni religiose, insieme ad una sterminata moltitudine di pellegrini, sui loro chilometrici "assi stradali", e all'interno dei loro "kivas" circolari - come dimostrato dagli archeologi - praticavano anche il cannibalismo rituale in omaggio a chissà quale divinità. Finchè nella prima metà del XIV secolo - mentre in Europa il clima diventava gelido e piovoso, e con gravi carestie predisponeva all'arrivo delle tremende epidemie di peste, dal 1347 in poi - anche gli Anasazi cominciarono ad essere colpiti da gravi carestie, a causa però di una prolungata siccità, come dimostrato dalla dendrocronologia: scienza questa - riguardante l'analisi degli anelli all'interno degli alberi ai fini delle datazioni archeologiche - nata e perfezionatasi a partire dal 1929 proprio per cercare di trovare risposte ai misteri di questo popolo di pellerossa. Da agricoltori e sedentari allora abbandonarono la propria amata capitale, Pueblo Bonito, e si spostarono tra nord e sud, sempre in perfetta linea retta, fondando almeno altre tre città: Aztec Ruins, Salomon Ruins e Casas Grandes, tutte perfettamente allineate sia con l'asse nord-sud, sia con l'ormai deserta Pueblo Bonito, nel Chaco Canyon, lungo l'attuale meridiano 108 (107, 57 per la precisione), prima di scomparire, forse dispersi e assorbiti da altre popolazioni di pellerossa.

Se ancora oggi per gli studiosi americani è un'ardua impresa riuscire a capire mediante quale sistema e quali strumenti siano riusciti a mantenere un allineamento così perfetto tanto nella costruzione delle loro strade, quanto nella loro estrema peregrinazione, un enigma ancora più impenetrabile sembra essere costituito dal significato di questo ossessivo allineamento: perchè mai era indispensabile per loro tanta precisione?

Si possono fare tante ipotesi, naturalmente, anche le più fantasiose. Prendiamone in considerazione una che potrebbe portare a "quadrare" tanti elementi, in primo luogo sotto il punto di vista strettamente geografico. Se si segue idealmente su di un mappamondo il meridiano 108 verso sud vediamo che superata la città più meridionale costruita negli ultimi tempi dagli Anasazi - Casas Grandes attualmente in territorio messicano - ci inoltreremo nel Golfo di California, poi nell'Oceano Pacifico e dopo aver superato l'isoletta di Clipperton, giungeremo dopo molte migliaia di chilometri in prossimità della costa orientale di un'altra località tradizionalmente associata a misteri archeologici e remote civiltà perdute: l'Isola di Pasqua (Eastern Island). Anche quest'isola è piena di storie relative a sovrani e tribù di uomini bianchi e barbuti, di antichi resti archeologici (a parte le famosissime statue di "Mohai", in realtà piuttosto recenti) relativi a mura molto simili a quelle esistenti in Perù, come la fortezza di "Sacsahuaman", e che sembrano ricondurre ad un remoto passato preistorico, ad una civiltà esistente molti millenni prima dell'era cristiana. E poi vi sono gli ultimi esemplari superstiti delle cosiddette "tavolette parlanti", tavole di legno incise con caratteri praticamente indecifrabili, anche perchè i pochi indigeni che ne conoscevano il significato furono anzitempo eliminati dalle malattie e dalle sofferenze arrecate entrambe dai "civili" europei. A quanto pare tuttavia intorno al 1860 il vescovo di Tahiti, un certo Jaussen, che aveva preso a cuore le sorti dei poveri indigeni pasquensi ripetutamente ridotti in schiavitù, riuscì forse a trovarne la chiave di decifrazione, dopo essere entrato in confidenza con qualcuno di quei disperati deportati anche sulla sua isola. Le sue conclusioni vennero riscoperte solo una novantina d'anni dopo dall'antropologo tedesco Thomas Barthel che dopo aver girato diversi monasteri della congregazione a cui era appartenuto il vescovo ottocentesco, riuscì a recuperare intorno al 1953 tutti i documenti in questione. Secondo l'interpretazione dell'ecclesiastico di Tahiti le tavolette pasquensi ripercorrerebbero la storia dell'arrivo dei primi indigeni dall'Isola di Rangitea o Raiatea - proprio nell'arcipelago delle Isole della Società alle quali appartiene anche Tahiti - nel XIII secolo della nostra era. Già nel secolo successivo avrebbero poi iniziato a costruire le prime statue di pietra in onore dei propri antenati.

Circa le tavolette tuttavia più d'uno studioso ha fatto notare la curiosa somiglianza di molti caratteri pittografici della loro scrittura con quelli ritrovati letteralmente all'altro capo del mondo (cioè proprio agli antipodi dell'Isola di Pasqua), fra le rovine delle antiche e misteriose città della Valle dell'Indo. Stiamo parlando in primo luogo di Mohenjo-Daro e Harappa, le due prime città dissepolte a partire dagli anni Venti del secolo scorso, ma anche quelle successivamente scoperte più ad est, nei pressi del letto asciutto del fiume Sarasvati, che fino al 2000 a. C. (o giù di lì) scorreva parallelamente all'Indo: Kot-Diji, Chanhu-Daro, Ganwariwala, e numerose altre. I documenti scritti di questa civiltà sarebbero stati faticosamente decifrati almeno in parte tramite un paziente confronto con i caratteri e i vocaboli dei dialetti locali pakistani e indiani ancora parlati, rivelando più che altro aspetti di vita quotidiana (atti di proprietà, transazioni commerciali, ecc.). Ma i resti delle città dell'Indo hanno destato sin dalla loro scoperta grande meraviglia anche presso gli stessi archeologi, per l'elevata qualità delle costruzioni murarie, la razionalità urbanistica (con le loro lunghe vie perfettamente dritte) e certe sofisticate innovazioni come ad esempio un efficiente sistema fognario, che vennero introdotte nel nostro mondo solo a partire dal XIX secolo. C'è chi vede appunto anche in tali soluzioni architettoniche l'eredità di una precedente e più antica civiltà che abbracciava gran parte dell'Asia e dell'Oceania, e le cui rovine si troverebbero ancora adesso diffuse in una vastissima area ed anche sul fondo dei mari e degli oceani. Ed in merito ad affermazioni come queste, in fatto di rovine misteriose ed anche sommerse, tra Asia ed Oceania, in realtà non vi è che l'imbarazzo della scelta: vi sono città in fondo al mare nel Golfo di Cambay in India; una presunta piramide sui fondali di Yonaguni, nei pressi di Okinawa (tutte risalenti perlomeno al 7000 a. C., un'epoca col livello del mare più basso); e poi due enormi colonne, sormontate da un arco pesante qualcosa come 170 tonnellate, nell'atollo corallino di Tonga-Tabu; altre piramidi nelle isole di Guam, di Kingsmill e dell'isola Swallow; mura ciclopiche nelle isole di Lelu Kosrae e nell'Arcipelago delle Samoa; colonne di marmo rosso, a forma di tronco di piramide, nelle Marianne; ruderi sulla collina di Kuki nelle Hawaii; fortezze ciclopiche sulle montagne dell'Isola di Rapa nelle Cubai; un monolite di 40 tonnellate dalle incomprensibili iscrizioni sull'isola Manua Levu nelle Figi; megaliti di forma piramidale (a Tinian), grandi piattaforme (a Navigator, a Palau), massi da cinque tonnellate (a Babel-Daop) che portano scolpiti volti simili a quelli dell'isola di Pasqua; e soprattutto le grandiose rovine di Nag Madol sull'isola di Ponhpei, nell'arcipelago delle Caroline. Tutti reperti che possono effettivamente parlarci di civiltà - una o più? - che dovettero fiorire già parecchie migliaia di anni fa, con la loro sofisticata e raffinata architettura orientaleggiante diffusa in tutto il Pacifico fino alle sponde americane, per poi andare in rovina sotto l'effetto dell'innalzamento dei mari o di altre ignote catastrofi (immani eruzioni vulcaniche? Caduta di meteoriti?).

Proviamo ad azzardare delle conclusioni? L'attuale meridiano 108, con gli insediamenti Anasazi e l'isola di Pasqua ai due estremi, e all'altro capo del mondo, il suo complementare meridiano 72 passante per le città della Valle dell'Indo, potevano forse rappresentare antichi limiti di demarcazione geografica della sfera d'influenza di un'antica e potente civiltà governata da uomini barbuti e dalla pelle chiara, i progenitori degli attuali Ainu? Ed i pellerossa agricoltori e sedentari di Pueblo Bonito ancora fino a 700 anni fa non può darsi che fossero costretti, inconsapevolmente, da un'ancestrale tradizione diventata poi religione, a curare ed a ripercorrere regolarmente quelle perfette strade forse realizzate da altri prima di loro, e lungo le quali i loro lontani antenati al servizio dei "signori Ainu bianchi" perlustravano il "confine geografico" come brave guardie di frontiera dalle minacce dei "selvaggi barbari dell'interno" (o di altre civiltà altrettanto potenti)? In mancanza di documenti scritti, tutte le ipotesi, anche le più suggestive e le più fantasiose, sono in realtà possibili. Di sicuro, le antiche rovine spesso monumentali ed a volte anche sommerse, ci si presentano come sparsi e frammentari tasselli di un mosaico che ancora non lascia neppure intuire cosa rappresenti. Ma paradossalmente, proprio anche grazie a questa sua incompletezza e incomprensibilità continua a suscitare la nostra affascinata curiosità.