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23 Aprile 2009 ARCHEOLOGIA
Corriere della Sera
L'AMORE NELL'ANTICA ROMA
tempo di lettura previsto 5 min. circa

ESCE OGGI DA FELTRINELLI IL NUOVO LIBRO DI EVA CANTARELLA.

Viaggio in una concezione dell'eros basata sul culto della virilità. Le donne conquistate dal loro fascino.

Che l'eman cipazione femmini le non fos se un fatto di élite, ma avesse toccato anche le donne del le classi meno alte, è chiaramente mostrato dai reperti, e più in partico lare dai graffiti pompeiani. Per cominciare: le donne di Pom pei, oltre a frequentare i teatri, assi­stevano ai giochi gladiatori, ai quali pare si appassionassero non tanto per i giochi in sé quanto per i gladia tori; i quali, se sopravvivevano alle lo ro non facili esibizioni, diventavano le star dell'epoca — un po' come i cal ciatori di oggi, o come i cantanti rock, ammirati e amati dalle donne di ogni ceto sociale. A dimostrarlo, ecco le iscrizioni che a Pompei, più o meno scherzosamente, alludono al loro fascino irresistibile. Il trace Celado, ad esempio — leg­giamo nella caserma dei gladiatori — fa sospirare le ragazze. Chi lo ha scritto, una donna o un uomo? Poco importa, in ogni caso dal graffito vie ne una conferma del fatto che le ra gazze di Pompei non erano insensibi li al fascino dei muscoli e della cele brità. Sullo stesso edificio, un altro graf fito ci informa che Crescente, il rezia rio (uno dei gladiatori specializzati nel combattere con una rete, con cui dovevano difendersi dagli attacchi av versari), era «il medico notturno del le ragazze». Piacevano a tutte, questi gladiatori.

Oltre che alle ragazze di modeste condizioni sociali, anche al le matrone, che a quanto pare, più es si uscivano malconci dalle lotte, più li amavano. Quanto meno, così vuol farci credere il solito Giovenale, che nella sua satira sulle donne racconta di una certa Eppia, che aveva abban donato casa e famiglia per seguire un gladiatore, tal Sergetto, che attende va, ormai, / con quel braccio spezza to il suo congedo; / e molti sfregi avea nel volto, e il ciuffo / diradato dall'el mo, e in mezzo al naso / un grossissi mo porro; e un male acuto / gli facea sempre gocciolare un occhio. / Ma un gladiatore egli era! Per lui, dice Giovenale, anche se era stata abituata da bambina a ogni lusso, e anche se faceva grandissime difficoltà se il marito tentava di farla salire su una nave, Eppia aveva sfida to le onde, seguendolo fino in Egitto: quel Sergetto non doveva essere ri buttante come Giovenale lo descrive. La patologica misoginia del poeta emerge anche in questi versi, e si con ferma quando, generalizzando il comportamento di Eppia, scrive che quelle che a un amante / van dietro, hanno stomaco di bronzo, / quella vo mita addosso al suo marito, / questa tra i marinai mangia e passeggia / su e giù per la nave e si compiace / nel maneggiare i ruvidi cordami.

Non le amava affatto le donne, Gio venale. Ma, al di là delle sue esagera zioni, possiamo cogliere una verità: anche le signore delle classi alte era no sensibili al fascino dei gladiatori. Come del resto parrebbe confermare un altro ritrovamento pompeiano. Nell'alloggio dove dormivano i gla­diatori, infatti, sono stati trovati i re sti di una persona di sesso femmini le, e dei gioielli, che presumibilmen te le appartenevano. Cosa ci faceva, in quel posto, una signora ingioiella ta? Esercitando un po' la fantasia, si è diffusa l'idea che quella sera la signo ra fosse andata, presumibilmente di nascosto, a trovare il suo bel gladiato re. Chissà se il cataclisma la sorprese appena arrivata, o mentre si accinge va a tornare a casa. Come che sia, mo rì in un momento felice.

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Erano molto preoccupati, i roma ni. Nonostante l'impegno che aveva no messo, e che continuavano a met tere, nell'opera di educare le donne alla virtù, erano stati costretti a ren dersi conto che qualcosa dovevano aver sbagliato. A cavallo tra il I secolo avanti e il I secolo dopo Cristo, vedevano la città popolata da donne i cui costumi avrebbero fatto inorridire i loro ante nati. Delle libertà (alcune delle quali concesse da loro stessi, massima del le beffe) le donne non si limitavano a fare un uso discreto, capace di non sconvolgere le antiche abitudini: ne abusavano, ne approfittavano in mo do indecente. Questo pensavano i ro mani. A loro non piacevano proprio le donne emancipate. Per loro, l'emancipazione era un pericolo so ciale.

Diceva Cicerone, parafrasando Platone, che là dove donne e schiavi non obbedivano era l'anarchia. Ma le accuse più pesanti alla presunta dis solutezza delle donne vengono dai poeti: in particolare, i poeti satirici. Giovenale, per cominciare. In lui, la descrizione della nequizia femmi nile raggiunge livelli paradossali. Al di là di ogni considerazione sulla en fatizzazione e caricaturizzazione del la realtà tipica del genere letterario, i versi di Giovenale rivelano una miso ginia quasi patologica: «La lussuria è vizio di tutte, schiave e padrone», scrive nella sesta satira, «da quella che va scalza per le strade della città, a quella che si fa portare in lettiga da schiavi siriani, le donne, tutte, senza scampo, sono dissolute». Certo. Lo sappiamo: la satira porta la realtà alle estreme conseguenze, ri­dicolizzandola, non di rado per esor cizzare nel riso il disagio e, spesso, una vera e propria paura. Ma perché avevano paura delle donne, i romani? Cosa temevano? In primo luogo, che volessero co­mandarli (come, secondo i poeti sati rici, ormai facevano senza un mini mo di ritegno). Soprattutto se erano ricche. Un timore diffuso, che Marzia le dichiara apertamente: Donna ricca sposare? No. Perché, / mi domanda te. Perché voglio / sposare, non esse re sposato. / La moglie, Prisco, sia soggetta al marito: / è la sola egua glianza possibile tra i due. Più chiaro di così. Comandano, pretendono. Ormai, sono convinte che avere un amante sia un loro dirit to. Alcune arrivano a pensare che li mitarsi a uno solo sia quasi una con cessione al marito.