Nord della Grecia. A poca distanza da Veria, lungo il corso del fiume Aliakmona, due piccole colonie, Koutles e Barbes, dopo il 1922 si unirono per diventare un unico paese, anche grazie all´insediamento di nuovi abitanti, profughi del Ponto, il territorio affacciato sul Mar Nero. Al luogo fu dato il nome della regina Vergina, che, secondo la tradizione, aveva il suo palazzo in questa zona.
Tutti sapevano, da sempre, che si trattava di un sito archeologico importantissimo. Ma solo nel 1938-40 l´Università di Salonicco vi finanziò un primo scavo. E bisogna arrivare all´agosto del 1977 per trovarsi di fronte a un´emozione capitale: le tombe reali dei Macedoni, indisturbate per ventitré secoli e contenenti i tesori ritenuti di Filippo II, padre di Alessandro il Grande, videro finalmente la luce. Il 24 novembre, presso l´Anfiteatro della Facoltà di Filosofia dell´Università di Salonicco, l´annuncio ufficiale del ritrovamento, senz´altro fondamentale come quello della tomba del faraone Tuthankamen.
A Vergina, una collina alta tredici metri e del diametro di centodieci, detta la Grande Toumba, ricopre tre sepolture: due macedoni (la più grande è di Filippo II, assassinato nel 336 a.C. mentre entrava nel teatro per seguire i festeggiamenti per il matrimonio della figlia) e una terza, più piccola, risalente all´ultimo quarto del secolo, ultima dimora ad un giovane principe, forse Alessandro IV, figlio di Alessandro il Grande, assassinato nel 310 a.C. a soli tredici anni. Infine, una tomba a forma di scrigno di epoca quasi contemporanea a quella di Filippo, approntata per una donna.
Il grande mausoleo fu costruito da Antigono Gonatas agli inizi del III secolo a.C., dopo il saccheggio dei Galati, per proteggere le tombe che mai, infatti, vennero violate. La tomba di Filippo è composta da una cella quadrata profonda e da una facciata, che ricorda un tempio dorico, con un portale in marmo, due mezze colonne tra due pilastri e, al posto del normale frontone, una scena di caccia. Tre cacciatori a cavallo e sette a piedi inseguono cervi, capretti e un leone. Nove cacciatori sono giovani senza barba, solo quello a cavallo che salta sul leone per ucciderlo, sembra essere un uomo maturo, il re Filippo. Il figlio Alessandro, che ordinò l´opera, è anch´egli presente. L´artista lo ha collocato al centro, a cavallo. Indossa un chitone color porpora ed ha una corona in testa.
Alessandro il Grande. Fascino e mistero. Bellezza, giovinezza, valore, il mai ritrovato sepolcro. Chi si lasci andare, agli scavi di Vergina e di fronte ai tesori macedoni là rinvenuti e poi trasportati al museo di Salonicco, non può che cogliere di lui le tracce più autentiche, lo stile di famiglia, la cultura d´origine. Un insieme totalmente lontano e diverso, in altre parole, da ciò che Hollywood ha contrabbandato per Alessandro (e per il suo mondo) nel film di Oliver Stone con Colin Farrell.
Un bellissimo volume di Paolo Moreno, Alessandro Magno. Immagini come storia (Libreria dello Stato, Istituto Poligrafico e Zecca, 539 pagine, 105 euro), fa, in altro modo, lo stesso effetto. Raccolta completa dell´iconografia alessandrina, «trasmette alla coscienza del pubblico i fatti di Alessandro nella loro autentica e spettacolare imprevedibilità, che supera ogni fantasia proposta a quel titolo dai romanzi o dal cinema». Ed è vero.
Pagina dopo pagina, di fronte alle immagini perentorie, rapinose, invincibili del Macedone, mito e verità si impongono attraverso l´unità e unicità del Personaggio. «La corte di Macedonia aveva imposto il prodigio di un dio che in forma di serpente si sarebbe congiunto a Olimpiade per concepire il presunto figlio di Filippo...». E ancora: «Il sovrano confisca l´espressione del proprio ritratto ufficiale, facendone interpreti per editto Apelle nella pittura, Lisippo nel bronzo, Pirgotele nell´incisione delle gemme. L´icona classica diventa simbolo perentorio della conquista e articolo di fede politica».
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