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31 Ottobre 2002 ARCHEOLOGIA
Al-Ahram Weekly Online
Scritto nella pietra del Deserto Orientale
tempo di lettura previsto 5 min. circa

Questi romani pieni di risorse avrebbero percorso qualsiasi distanza per mantenere lontano gli elementi sovversivi per l´impero, perfino costringendoli a ricavare colonne di granito di 30 metri dal ventre delle montagne. Ecco il racconto di Jenny Jobbins per Al-Ahram Weekly Online.

Attraverso il Deserto, in direzione di Qena abbiamo proceduto lungo la Via Porphirites, la vecchia rotta romana dalla miniera a Monte Porphyrites, origine di molta parte del bellissimo granito rosso di Porfirio che i romani apprezzavano e che prelevarono in grande quantità. I carri colmi di pietre venivano spinti dalle miniere fino al Nilo e qui imbarcate su barconi e condotti a Roma ed in angoli perfino più remoti dell´Impero. Non più di sette od otto anni or sono le rotte percorse dai carri romani erano ancora visibili in alcuni luoghi, ma sono ormai state cancellate dal traffico irriguardoso di camion e altri veicoli.

E´ stata la ricerca della miniera che ci ha portato nel deserto la prima mattina. Guidavamo lungo la costa da Ras Banas, 123 km a sud di Mersa Alam. A Porto Safaga abbiamo svoltato per vedere le rovine della città dei minatori di Monte Claudiano, ubicate in qualche luogo alla fine di una strada sterrata, a nord dalla strada asfaltata che corre da Porto Safaga a Qena. Questa strada si arresta a Bir Abdel-Wahab, e di qui si può facilmente raggiungere Monte Claudiano.

Se si ha una guida.

Noi non l´avevamo.

Ma abbiamo trovato una comoda ed ampia radura in un wadi riparato, per sistemare il nostro campo, e dormire sotto uno spettacolare cielo stellato che quasi non ci faceva sentile la fame.

Una volta svegli, abbiamo presto scoperto che Monte Claudiano si trovava giusto dietro l´angolo. La città è ai piedi di Gabal Fatira (Monte Claudiano). Qui vivevano i minatori – condannati per la maggior parte – e le loro famiglie, circondate dalle miniere da cui era prelevato il granito chiaro di grana finissima. I beduini locali chiamano il posto UM Digal (Madre delle Colonne) per via delle colonne che vi si trovavano ancora attorno. Apparentemente l´antica radice semitica deqel o deqala significa palma da dattero, ma anche colonna o pilastro.

Questo ed il Monte Porphyrites, 50 km più a nord, sono stati visitati da molti intrepidi avventurieri negli ultimi 200 anni. Tra essi vi era George Schweinfurth, fondatore della Royal Geographic Society del Cairo, che vi giunse nel 1888 e compilò una descrizione dettagliata della città. Ma il sito non può essere trovato nella maggior parte delle guide pubblicate tra gli anni ´30 ed ´80 dello scorso secolo. L´avvento del trasporto su quattro ruote e l´incoraggiamento del turismo del Mar Rosso, hanno risvegliato l´interesse per le antichità del Deserto Orientale.

Il profilo della città può essere visto ancora chiaramente, e, dal momento che l´area è stata disabitata dopo che i romani l´abbandonarono, le rovine sono relativamente intatte. Le case, allineate a strette vie di passaggio, erano comprese da un muro di 70 metri quadrati. Al di fuori vi erano le case dei sorveglianti, una villa privata, un tempio non terminato e stalle per circa 400 capi di bestiame e spazi per le loro scorte di cibo. L´acqua era conservata in una torre-cisterna.

La più grande delle colonne, in posizione orizzontale, è lunga 20, 5 metri ed ha un diametro di 2, 6.

Per via del loro peso, le colonne venivano sistemate il più lontano possibile prima di essere caricate sui vagoni, che erano sospinti da qualcosa come almeno 40 buoi. Il gruppo si sarebbe fermato a riposare lungo la strada per la Valle del Nilo ogni sei stazioni, ognuna fornita di un rifugio, di scorte e rifornimenti. Abbiamo visto due di queste stazioni quando abbiamo seguito la Via Porphyrites verso Qena. Una di esse conteneva ancora una cisterna di acqua torbida e verdastra, e sotto di essa una spanna di corda logora.

Il porfido imperiale del vicino Monte Porphyrites era molto richiesto ed usato per arredare palazzi e templi; era anche spesso tagliato per ordini in situ, ed era relativamente facile da trasportare. Ma il granito tagliato a Monte Claudiano doveva essere spostato in blocchi enormi; in più, non era della migliore qualità, e la domanda più spontanea è: perché tanti uomini venivano inviati a scavare una miniera di pietre di qualità inferiore a quelle trovate in Italia? La risposta, è che vi era un´abbondanza di condannati che in questo modo potevano essere impiegati in modo proficuo. Questi erano gli uomini che Plinio chiamava "Damnati in metallum", cristiani cacciati dall´Impero ed esiliati in quello che è ora il Medio Oriente – da Alessandria alla Siria— condannati a lavorare in campi di fatica a molta distanza da dove avrebbero potuto creare disordini politici. Di qui le numerose torri di controllo.

Parecchie storie sono state scritte circa questi miserabili "criminali". Lo storico della chiesa Eusebio descrive il loro destino ne "Le miniere di Tebe". Sotto Diocleziano il luogo in cui venivano inviati era chiamato il Monte di Fuoco, e si ritiene fosse proprio Monte Porphyrites, ora conosciuto come Gabal Al-Dukhan o Monte del Fumo.

Schweinfurth riporta un´iscrizione – che è da allora scomparsa – del tempio, che recita: "Nel XII anno dell´Imperatore Traiano Cesare Augusto Germanico, per opera di Sulpicio Simio, Prefetto dell´Egitto, fu eretto quest´altare." Il granito di Monte Claudiano fu utilizzato per l´edificazione di edifici quali il Pantheon, il Tempio del Divo Traiano, la Villa Adriana di Tivoli, le Terme di Diocleziano e Caracalla ed il Mausoleo di Diocleziano. Le miniere del deserto orientale sono testimonianza della precisione e dell´organizzazione dell´Impero Romano, che a quel tempo, sotto l´Imperatore Traiano (dal 98 al 117 d.C.) e Adriano (dal 117 al 138 d.C.) aveva raggiunto il suo zenit.